Marzo 2024 – Brünndl

 

È il momento di tornare alle montagne: di tornare su quei monti che sanno di casa e rifugio dell’anima per molti, se non moltissimi. In verità, per molti più di quel che si crederebbe geograficamente lecito. Perché la vista e la vicinanza delle montagne ha qualcosa di speciale: per chi ci è nato e cresciuto, per chi le ha avute compagne fedeli anche soltanto per qualche tempo, o per chi le ha viste ogni giorno dal finestrino di un treno recandosi in sterili uffici con la testa unicamente impegnata già nell’atto di poter tornare a casa la sera e viaggiare così di nuovo, questa volta veramente, con un disco che esce dalle casse o dalle cuffie, corpo e spirito. E questa volta, tra tutte le montagne, volgiamo lo sguardo verso l’al di qua delle sempre care Alpi: verso le dolomitiche altezze oltre Bassano Del Grappa e verso i Brünndl, autori del disco (collaborazione tra Venetic Black Metal Front ed Hypogea Invictus Productions) migliore del da un po’ trascorso e spentosi mese di marzo con il loro terzo capitolo omonimo del grande libro perennemente in fase di scrittura che è l’intero operato di favole, detti e leggende sotto questo nome.
Si procederà poi in direzione delle steppe del Kirghizistan con i Darkestrah di “Nomad”, disco del mese per qualcun altro di noi, prima di recarci nuovamente nell’Italia (ma del sud) per un redivivo progetto che scalcia e azzanna sempre meglio, velenoso come saprà esserlo solo il ritmo venefico dell’ultimo candidato in lista, facendoci finire la gita nei sobborghi della Dalarna svedese, così pieni di risentimento e angoscia ma anche rivalsa. Però, per il momento almeno, iniziamo col seguir una luminosa stella – nella notte argentata, puntando all’ultimo sentiero per poter tornare a casa…

 

 

“Lo spirito montano e montanaro dei Brünndl è più palpabile, locale e nitido che mai lungo i tortuosi passaggi di cui si compone il terzo capitolo discografico del terzetto valsuganotto. Echi di cordati melodicismi gemelli dei Windir in torrenti scroscianti di salterelli alpini e riff in sapor d’Isengard, passaggi di quasi-valzer aiutati dalla fisarmonica e una graniticità rara da sentirsi, regalano un viaggio lungo e soddisfacente: ruvido eppure mai primitivo in termini, verace come una calma serata in baita, un po’ brilla, ma autentico come la roccia; arte povera ricca tanto di squisiti difetti, impurità sapide ed imperfezioni da ascoltare avvicinate al cuore, quanto di ottime idee ed anima indomita. Se il secondo capitolo li aveva messi sulla mappa della realtà da seguire con la più dovuta attenzione, il parto anno 2024 punta sui più distintivi elementi ad oggi sperimentati dal gruppo, riconfermandoli pur senza inutili scossoni quali autori di uno dei progetti più genuini e di qualità del paese.”

“Quello dei Brünndl è un approccio alla propria musica che trasmette una sincerità e una passione ormai sempre più rara da trovarsi: niente titolo, nessuna foto dei componenti, promozione quasi nulla con annuncio appena precedente all’uscita, ma solo e soltanto un’ora filata di Black Metal che con coerenza e sguardo trasognato guarda innegabilmente ad Isengard, Windir e in generale a quella folklorica scuola norvegese d’altri tempi con passione, pur riuscendo a filtrare paesaggi e sensazioni del proprio retaggio locale. Ciò che di ottimo si poteva già sentire nel secondo album è qui confermato e variato verso un fitto gioco di incastri melodici di grande fattura ed esperienza che, a dispetto di un salto di qualità che poteva persino essere più marcato -forse prediligendo una produzione dal filo più tagliente-, continua a far spiccare una qualità proiettante il progetto veneto fra le formazioni di prim’ordine nel panorama italiano.”

Laddove non arrivano l’originalità ed il talento innato può sempre arrivare il cuore ghiacciato di chi percepisce una concreta connessione verso determinate sonorità; è questo il caso dei veneti Brünndl, non certo il nome più visionario ed audace che abbiamo in Italia ma di contro tra i pochissimi a saper riprendere le regole del genere facendovi filtrare attraverso quel minimo sindacale di creatività. Come da scuola tricolore è il riff a fare da chiave di volta, esaltato dall’impettita produzione senza però sacrificare gli azzeccati tremolo e qualche momento di svago acustico che male non può fare; come nemmeno una voce venale al punto giusto la quale si abbina alla perfezione con questo sound tanto rustico e deciso. Ci sono nel terzo parto dei vicentini la forza tribale di Isengard, l’approccio Heavy quando non un filino Prog di Vintersorg (galeotti furono quei cori puliti col montanaro vocione baritono), ed in generale l’esigenza da parte dei quattro musicisti di esprimere il folklore dell’alta Italia attraverso corrispettivi esempi esteri, in particolare norreni ma il più possibile distanti dagli stereotipi che anche i fan più esperti possono avere della scena di lassù; intento filologico assai nobile, specie in un paese dove o si sperimenta senza criterio alcuno o si ricalca fino al parossismo qualsiasi tratto distintivo senza porsi troppe domande.”

Gli anticipati Darkestrah del già introdotto “Nomad”, non proprio dei volti nuovi ormai giunti come sono al full-length numero sette (fuori per Osmose Productions), ma inediti per il nostro Caldix nella inaspettata maturazione finalmente intercorsa dal precedente “Turan”, ridendo e scherzando parto già di otto anni or sono. Meglio tardi che mai: eppure l’intensità, la cinematograficità e la immersività della band sono qui senz’altro prive di precedenti in casa.

La teatralità tipica del Black Metal europeo e del folklore dell’Asia centrale trovano un intrigante connubio all’interno dell’ultimo disco dei Darkestrah, band alla quale in tutta sincerità non ho mai prestato particolare attenzione ma che in questo nuovo lavoro raggiunge vette di epicità e spiritualità che non possono né devono passare inosservate. I tappeti di tastiere uniti agli strumenti tradizionali e alla drammaticità del comparto vocale costruiscono un vero e proprio muro sonoro in grado di accompagnare l’ascoltatore nei paesaggi incontaminati del Kirghizistan riuscendo a trasmettere tutta l’imponenza e l’eleganza di territori a noi sconosciuti e tanto esotici. La tracklist si presenta estremamente godibile e riascoltabile grazie ad una forma compositiva piuttosto standard e priva di sperimentazioni, anche se per i più pignoli potrebbe mancare una sensazione di progressione in grado di rendere questo lavoro totalmente memorabile. Ogni brano se preso singolarmente è ricco di molteplici momenti di spicco che purtroppo si spengono o perdono un po’ nell’ascolto generale. Se da un lato questo potrebbe essere un problema, perché non ci sono veri e propri picchi di eccellenza, dall’altro è una nota assolutamente positiva vista la qualità mediamente molto alta che ci intrappola continuamente nell’affascinante immaginario di “Nomad”.”

Dei sempre più iconoclasti, blasfemi, grotteschi, spettrali e lividi Funeral Oration, con “Antropomorte” rigiunti sugli scaffali per riconfermare la direzione stilistica dell’inaspettato ritorno “Eliphas Love” (2019). Avantgarde Music garantisce come sempre, dal lontano 1996 di “Sursum Luna”, e chiunque avesse trovato interessante il precedente sforzo dei pugliesi può star sicuro che qui andrà persino meglio.

Sinfonici come nella seconda metà degli anni ’90 ma totalmente italiani, non solo per idioma (la voce del tanto selvaggio quanto intellettualoide The Old Nick a declamare, mordere e salmodiare è, del resto, una garanzia difficilmente indifferente) bensì per una pletora di sensazioni, stilismi e temi già cari alle derive senza soluzione di continuità di Devil Doll, Death SS, The Black del Di Donato, Necromass (di “Mysteria Mystica Zolfiriana”), Paul Chain Violet Theatre, Abysmal Grief – ebbrezza pagana ultraviolenta e ribelle nello stomaco che pervade le dissacranti composizioni, piene di barocchismo d’archi nelle ad ogni modo semplici tastiere arcturiane (o dei Tragoidia, se non del più celebrato “Addisiu”, per restare geograficamente più prossimi) tuttavia votate al Dark-Sound italiano e all’occulto sdegno così come ascoltato, in tempi recenti e nel solo metallo nero, in un certo “Ossa Mortuorum…”. Non un ascolto semplice, immediato né per tutti; ma questo sono sempre stati i Funeral Oration nel bene e nel male.”

Più epici, melodici e vittoriosi che mai, i Dödsrit scoprono in “Nocturnal Will” un grandeur quasi atmosferico che innalza in personalità il canovaccio del loro Black Metal imbastardito di Crust à la Disfear. Si immagini un “Live The Storm” suonato dai Mgła; un “Run With The Haunted” provato dai Woods Of Desolation. Se il risultato a parole fa giustamente venire i brividi d’orrore, leggetevi Ordog e dategli una chance: è meglio di come ve lo aspettate.

La passione dei metallari svedesi di ieri e oggi per gli Iron Maiden non l’abbiamo certo scoperta ora, eppure ogni volta che una realtà gialloblù sovrappone a partiture estreme quei maledetti lead di chitarra il risultato, nel peggiore dei casi, è quantomeno meritevole di un ascolto o due. La svolta data al progetto ad inizio decennio, con l’istituzione di una line-up fissa ed il rilascio del già ottimo precedente “Mortal Coil”, progredisce verso vette di pathos difficili da aspettarsi da un manipolo di crusties in fissa col metallo nero locale degli anni ‘90: se infatti le ritmiche restano basilari come gradito al pubblico degli squat e le sei corde portano fiere il vessillo del Metal più classico, le strutture mastodontiche dei brani e soprattutto le necessarie pause tra una sezione e l’altra sembrano guardare alla costa ovest nordamericana per articolazione e respiro conferito alle composizioni firmate dai Dödsrit. Nemmeno a dirlo, i tre quarti d’ora complessivi scorrono con la rapidità di un EP da venti minuti secchi, ed anche se la voglia di epica a tutti i costi può aver messo un freno all’impatto frontale che questo stile dovrebbe avere (in tal caso, prego rivolgersi ai cugini Martyrdöd), la foga trasmessa nei momenti migliori di “Nocturnal Will” rimane quella dei palchi bassi, degli ampli semidistrutti e dei microfoni dati in pasto alle prime file.”

E con ciò la festa è finita. Poco e nulla da segnalare in chiusura questa volta, se non un quasi centro mancato per un pelino proprio piccino dalla presentazione prima del nuovo progetto Black Metal che tra gli altri è di Constantin König (il Sindar ex-Lunar Aurora, un po’ furbescamente ed indebitamente -si scusi l’adeguato quanto brutto anglico neologismo- namedroppato da etichetta ed addetti dal momento che, com’è peraltro abbastanza udibile, lui ci suona giusto il basso), ovverosia i Kohlrabenschwarz di “Im Finstren Tal”, oltre che i sempre piacevoli (ma forse niente di più) Acathexis di “Immerse”, con tanto di Dany Tee alla voce come nei nostri adorati Downfall Of Nur (ormai dati per ospiti fissi a Chi L’Ha Visto?), finendo con gli interessanti Sacrificial Vein del debutto “Black Terror Genesis” – sicuramente troppo ancorati a quella scuola lì di dissonanza in nero ma che, parafrasando a braccio il buon Caldix, sono un po’ acerbi coi suoni però ogni tanto impazziscono e diventa una figata (tourette Black Metal).
E chissà che di ancor più matti non si possa parlare nel prossimo mensile. Probabilmente no, a giudicare dalle coordinate stilistiche dei più nobili nomi in fila, ma mai dire muori – come ci suggerivano degli effettivamente ed ironicamente molto poco vivi Black Sabbath nel lontano 1979…

 

Matteo “Theo” Damiani

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